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Italia, pochi gradi di separazione da una crisi di sistema
La volta scorsa avevamo visto come il deteriorarsi della situazione politica italiana potesse potenzialmente spingere il paese verso problemi normalmente associati a economie emergenti di non particolare qualità. Questa volta torniamo sul tema, fornendo qualche dettaglio aggiuntivo a questa analisi. Innanzitutto partiamo da un punto fondamentale: quando le famigerate agenzie di rating determinano il voto da assegnare al debito di un paese emergente, fornicono una sorta di tetto al rating del debito corporate, che non supera mai il livello di quello dello stato.
Questo fatto ha una certa logica, in quanto spesso si tratta di economie poco diversificate, con una forte presenza statale in molti settori chiave. Tale composizione si riflette in particolar modo nella possibilità di scelta degli asset disponibili sui mercati finanziari, in cui debito pubblico, azioni e corporate bond delle aziende di maggiori dimensioni, spesso gruppi statali o quasi operanti in settori relativamente di base, forniscono il grosso delle attività acquistabili sul mercato.
Sui listini dei paesi in via di sviluppo è più facile trovare grosse banche, telecom e qualche colosso energetico locale piuttosto che giganti privati dei beni di consumo, dell'It o del farmaceutico. Detto ciò, si comincia a capire il perché in qualche maniera il nostro paese presenta caratteristiche simili a quelle finora esposte. Intendiamoci: l'Italia vanta ancora un vasto tessuto industriale di buona qualità: il problema è che si tratta di aziende in generale di medie dimensione con una scarsa presenza sui mercati finanziari.
L’insieme degli asset nazionali è dominato dai 2.300 miliardi circa di debito pubblico nazionale: questa cifra, Bce a parte, vede ormai una base di investitori esteri piuttosto ridotta, con il grosso dell’ammontare in mano a istituzionali italiani, banche in primis. Infatti in Europa l'Italia detiene il primato fra le grosse economie in termini di debito pubblico posseduto localmente (oltre il 62% l'anno scorso), mentre, ad esempio, la percentuale equivalente in Germania è meno della metà.
Inoltre è altrettanto noto che banche e servizi finanziari rappresentano il comparto più importante in termini di capitalizzazione borsistica e di quota dei corporate bond emessi da gruppi italiani. Non sorprende pertanto che vi sia una correlazione quasi perfetta fra l'andamento del debito in questi giorni e quello degli istituti di credito: l'indice settoriale del Ftse Mib, infatti, è venuto giù di circa il 13% dai massimi di aprile.
Forse ancora più inquietante è però un elemento sottolineato da un'importante sim milanese che in un report ha sottolineato che il differenziale fra l'Ois (overnight index swap, il tasso pagato in contratti di swap che vedono un fisso a fronte della media degli ultimi sei mesi del costo del denaro overnight) e il Bot italiano a sei mesi all'improvviso è salito di una ventina di punti base.
Gli spread rispetto all'Ois sono spesso usati come misura del rischio sul mercato interbancario dove banche e altre istituzioni finanziarie si approvvigionano. Infatti strumenti di debito pubblico vengono spesso utilizzati come collaterale a garanzia di prestiti di breve durata: un simile fenomeno dunque potrebbe essere la spia di maggiori difficoltà di finanziamento per le banche italiane. Per fortuna queste ultime non presentano una leva eccessivamente alta e vantano una solida base di depositi, con però ancora problemi di qualità dei bilanci. Un aggravio serio delle condizioni delle banche italiane sul money market incidentalmente condurrebbe dritti a un credit crunch nell'economia reale, con quel tessuto di medie imprese di cui parlavamo che dipende in gran parte dal credito bancario.
Da questi elementi si può capire dunque il parallelismo fra l'Italia e gli emergenti: i canali di trasmissione verso una potenziale crisi sistemica sono pochi e alla fin fine molto lineari e partono tutti dalla disastrosa situazione dello stato. Non si può dunque scherzare col fuoco.