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Perché avere paura della crisi turca
Spesso agosto è un mese difficile sui mercati e probabilmente i fenomeni di volatilità che si registrano spesso e volentieri in tale periodo dell'anno non sono una semplice coincidenza, ma sono dovuti a volumi più sottili rispetto al resto dell'anno e alla scarsità di avvenimenti in generale, che tende ad amplificare tutto ciò che succede sui mercati.
Quest'anno a dare fuoco alle polveri è stata la crisi turca, a sua volta in mezzo a un'escalation di un periodo di crisi che dura ormai da parecchio. Il termine crisi in questo caso va inteso in senso lato e in una maniera tipica delle economie emergenti. Se andiamo a vedere infatti solo l'andamento del Pil, in senso stretto in Turchia non c’è al momento alcuna crisi.
Nel corso del 2017, infatti, l'economia è salita di oltre il 7%. Ciò ha fatto seguito a un +3,2% nel 2016 (un anno difficile in generale per molte nazioni emergenti), mentre nel triennio 2013-2014-2015 l'incremento era stato pari rispettivamente +8,5%, +5,2% e +6,1%. La Turchia dunque sembrerebbe in pieno boom. Purtroppo, però, questi risultati, che comunque sono tangibili e reali (basta ad esempio leggere il rapporto better living dell'Oecd sulla Turchia per rendersi conto del miglioramento della qualità della vita per la popolazione locale negli anni 2000), sono stati accompagnati da squilibri macro non più sostenibili.
Il paese, infatti, ha accumulato un ingente debito estero, quasi tutto ascrivibile al settore privato: oltre 400 miliardi di dollari lordi e più di 200 netti (il Pil l'anno scorso era intorno a 850 miliardi e con la svalutazione attuale si presume che tale valore nel 2018 calerà molto). Sostanzialmente la Turchia ha finanziato attraverso il debito estero contratto dalle banche locali un'enorme espansione infrastrutturale, energetica e industriale che ha creato moltissimi posti di lavoro e spinto i consumi locali. Il settore delle costruzioni, infatti, l'anno passato ha fornito circa un decimo della crescita economica complessiva, anche se, contando il volano avuto sul manifatturiero (venuto su nel 2017 di circa +9,2%), sicuramente l'influenza di edilizia e infrastrutture è stata più forte.
Tutto ciò a fronte di un'eccellente industria turistica, ripresasi quest'anno dopo i cali dovuti ai problemi politici degli ultimi anni e a un comparto industriale discreto ma nulla più. Il risultato di questa crescita è stato una serie infinita di saldi negativi di partite correnti che hanno generato alla lunga un'inflazione pesante: a luglio si è sfiorato il 16%, che ha condotto alla svalutazione degli ultimi mesi.
Insomma una classica crisi da paese emergente, le cui dimensioni peraltro non appaiono neppure enormi. Il problema è che gli spasmi turchi vanno a inserirsi in un periodo in cui gli scricchiolii si fanno sentire da diverse parti. Non aiuta, ad esempio, il fatto che le banche italiane siano fra le più esposte nel mercato del credito turco, insieme agli istituti francesi e spagnoli, in una fase peraltro di decelerazione della ripresa europea. Non facilita neppure il fatto che colossi come Brasile e Russia siano ancora in posizioni di fragilità, con un dollaro troppo forte e un ciclo delle materie prime ancora traballante. Non migliora la situazione, infine, l'incertezza circa le sorti del libero commercio mondiale.
In questo clima strisciante di avversione al rischio generale, sintetizzato dal duplice solido andamento di yen e dollaro, qualsiasi crisi, in sé più che gestibile, rischia di dare l'avvio a qualcosa di molto più grosso.
Al solito non sono tanto le dimensioni del problema a fare paura, quanto le sue interconnessioni, specialmente se esse sono presenti fra gangli particolarmente fragili del sistema finanziario mondiale.