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Usa, le ragioni della Fed
In un precedente articolo erano state esaminate le argomentazioni dell’amministrazione Trump nei confronti della Federal Reserve, la Banca centrale degli Stati Uniti, che ha portato il tasso di riferimento al 2,25%, che dovrebbe salire di circa un altro punto nell’arco di un anno. Secondo la presidenza, la Fed sta alzando troppo e troppo velocemente il livello degli interessi, con il rischio di rendere la vita difficile alle imprese e allo stato, che si dovranno finanziare a costi maggiori, e di provocare una vera e propria rivoluzione sul mercato obbligazionario, già oggi molto in difficoltà, e di fare finire in anticipo il ciclo economico positivo, che dura ormai da quasi 10 anni.
Ma non mancano le ragioni della Fed. Vediamo le principali.
Una manovra classica. Sta sostanzialmente scritto in tutti i manuali di economia politica che quando l’economia va molto bene c’è il rischio che salga l’inflazione sotto la spinta di consumi e pressioni salariali. Oggi gli Stati Uniti sono forse l’unica grande potenza al mondo che ha tuttora ottime prospettive di crescita ed è logico che la Banca centrale, dopo anni di tassi a zero o quasi, raffreddi un po’ l’economia, anche se ciò può dare un po’ fastidio ai mercati.
Un’arma in mano. In questo contesto, proprio l’avvicinarsi della fine del ciclo positivo sta accelerando l’azione di Jerome Powell, presidente dell’istituto di emissione Usa. Nel momento in cui il ciclo economico positivo si arenasse (ed è probabile che dopo nove anni e mezzo l’evento si verifichi), la Fed deve potere disporre di armi per rilanciare l’economia entrata in crisi. Con i tassi ai minimi le possibilità di intervento sarebbero praticamente nulle e la Banca centrale dovrebbe stare a guardare una situazione che si è improvvisamente deteriorata.
La scelta in un certo senso oggi è brutale: conviene lasciare i tassi bassi per aggiungere qualche mese a un ciclo che indubbiamente ha il fiato corto o è meglio magari anticipare di qualche mese la crisi, ma avere le armi per affrontarla? Per la Fed non ci sono troppi dubbi su che cosa fare.
L’inflazione. Il controllo dell’inflazione è forse il ruolo fondamentale di una banca centrale in tutto il mondo. Quando fu lanciato il quantitative easing in una situazione di deflazione, lo scopo dichiarato era stato di riportare il costo della vita al 2%. Nel corso del 2018, dopo anni di crescita economica e di piena occupazione, l’inflazione ha raggiunto il massimo a luglio con il 2,95%, è proseguita con un 2,70% ad agosto ed è scesa al 2,28% a settembre (ultimo dato disponibile), probabilmente proprio per effetto dell’azione della Fed. In pratica l’obiettivo della politica espansionista dell’istituto di emissione Usa è stato ampiamente raggiunto e, secondo i vertici, il rischio oggi è opposto: che l’inflazione salga troppo e surriscaldi l’economia. Inoltre, se ci fosse una brusca frenata dell’economia, tutt’altro che improbabile dopo un ciclo così lungo, si potrebbe entrare addirittura nella stagflazione, la somma di stagnazione e inflazione. Il peggio che potrebbe capitare.
Conclusione. Indubbiamente le motivazioni di Trump nel suo attacco alla Fed non sono da poco, ma sono totalmente nella logica di un politico che deve vincere le elezioni e convincere la maggioranza degli americani che la sua amministrazione ha lavorato bene. E l’elemento base per essere popolari negli Usa è avere i mercati a favore, presentarsi con la borsa in crescita costante.
La Fed al contrario ha un altro tipo di interesse: fare in modo che la struttura economica del paese sia equilibrata e avere in mano le armi necessarie a intervenire nei momenti di necessità. La logica della Federal Reserve non può e non deve essere politica, ma deve essere quella di un funzionario dello stato che guarda lontano, ben oltre le scadenze politiche.
Quale delle due logiche deve essere vincente? Quale delle due azioni sul lungo termine darà i migliori risultati al paese e alla fin fine al resto del mondo, vista l’importanza degli States su tutte le economie del globo? La risposta non è univoca.