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Stati Uniti, una demografia sfavorevole
In un precedente articolo abbiamo visto che il marcato progredire delle disuguaglianze economiche negli Stati Uniti rappresenta una minaccia per i rendimenti futuri del possente mercato degli asset locali. Tentiamo a questo punto di capire da un punto di vista concreto quale potrebbe essere l'influenza dei trend sociali e demografici in atto negli Usa.
Innanzitutto va evidenziato un elemento: come succede in molti paesi sviluppati, al contrario di quelli emergenti, negli Stati Uniti vi è una forte frattura economica generazionale, con un diffuso malessere fra i millennial. Infatti uno studio della Federal Reserve condotto l'anno scorso mostra che la ricchezza pro capite del gruppo dei più giovani è inferiore del 40% (in termini reali) rispetto a quella mostrata dalla generazione X nel 2001 e dai baby boomer nel 1989, quando questi due insiemi erano in una distribuzione anagrafica equivalente rispetto ai millennial attuali.
Si stima poi che quest'ultimo gruppo fosse costituito nel 2015 da circa 83 milioni di persone, una cifra che rende tale agglomerato il più vasto segmento demografico del paese, grazie anche a una ripresa del tasso di nascite negli anni ‘80 e ‘90. L’espansione demografica è fortemente calata successivamente, il che apre un nuovo problema: la generazione Z, di cui fanno parte i giovani nati fra le seconda metà degli anni 90 e i primi 2000 rischia, una volta raggiunta la piena maturità, di portare sulle spalle una quantità molto ampia di persone che per di più non hanno usufruito di un percorso di costruzione del proprio patrimonio personale come hanno fatto i baby boomer.
Questi ultimi nel frattempo stanno entrando in un'età piuttosto avanzata: circa 1,5 milioni di costoro raggiungeranno i 70 anni ogni anno per il prossimo quindicennio. In tale età le leggi fiscali del paese obbligano a ritirare parte dei soldi investiti in azioni e sui capital gain le tasse sono state posposte, proprio allo scopo di incassare queste imposte. I baby boomer, peraltro, costituiscono il gruppo con la maggiore allocazione del proprio patrimonio in equity (circa il 70%) e se si trovassero ad esempio impossibilitati restare sul mercato a causa di spese mediche o semplicemente non fossero più desiderosi di reinvestire in asset rischiosi, indubbiamente il quadro per il vasto settore azionario Usa apparirebbe meno favorevole.
Ovviamente i trend esposti si dispiegheranno su un lungo periodo e a loro volta saranno contrastati da altri fenomeni positivi: se l'America continuasse a sfornare aziende in grado di macinare montagne di profitti nell'economia globale, compratori di loro titoli si troverebbero. Solamente, quando si considerano tutti gli altri fattori in ballo, appare sensato inserire un piccolo sconto circa le prospettive di performance future.
In concreto, se si ritiene che l'S&P 500 possa avere un determinato beta, ad esempio 1, nei confronti di un certo scenario economico favorevole, sarà magari più prudenziale abbassare il valore a 0,98, mentre di converso, se si attribuisse sempre un beta di 1 a condizioni macro sfavorevoli, sarebbe magari più sensato alzare tale cifra 1,02.
Di conseguenza le tendenze demografiche in atto nel paese rischiano di amplificare lievemente i trend negativi e deprimere quelli positivi. Modelli di regressione come Lasso, Ridge o Elastic Net permettono di aggiustare questi parametri. Al di là dei dettagli statistici, il messaggio che gli investitori dovrebbero tenere a mente è che probabilmente stiamo entrando, al netto dei cicli, in un'era di rendimenti degli asset rischiosi statunitensi strutturalmente inferiori rispetto al recente e anche meno recente passato.