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Giappone, usato sicuro
L’azionario giapponese ha avuto negli ultimi 10 anni performance per certi versi speculari a quelle di Cina e Corea, un andamento che appare perfettamente spiegabile una volta analizzata la composizione del mercato equity locale. Infatti nel decennio il rendimento complessivo in termini di total return, includendo cioè i dividendi reinvestiti, in dollari è stato +8,23% all’anno, un valore non di poco inferiore a quanto messo a segno da Cina e Corea del sud, che hanno fornito agli investitori rispettivamente +10,14% e +10,68%.
Essenzialmente la parabola post-crisi finanziaria del Giappone si può riassumere dividendo il decennio fra il pre-ritorno di Abe al premierato e l'era successiva. Fino a tale cesura il Giappone sembrava francamente una causa persa, una nazione che assomigliava sempre più all'Italia, caratterizzata da aziende decotte, un sistema finanziario non dei meglio gestiti e una notevole esposizione alla recessioni globali.
Le riforme degli ultimi sei anni anni, pur non producendo risultati fenomenali, hanno comunque reso la terza economia del mondo più stabile e meglio gestita, quanto meno a livello corporate. Il risultato è che nell'ultimo quinquennio il total return annuale dell’Msci Japan è stato del 5,97%. Si tratta di un valore inferiore rispetto all’Msci China, ma di gran lunga migliore del dato coreano e di quello di quasi tutti i paesi europei. È interessante notare che questo risultato non include l'anno migliore, in termini di performance borsistiche, dell'era dell'Abenomics, ossia il 2013, in cui fu registrato un guadagno superiore al 27%. Ciò nonostante, la forte caduta dello yen durante quel periodo.
Di converso il dato peggiore dell'ultimo decennio si è avuto nel 2011, quando Tokyo risultò uno dei peggiori mercati del mondo chiudendo a -14,2% circa. L'anno scorso invece le perdite, per quanto concentrate in maniera piuttosto brutale nell'ultimo trimestre, sono state meno pesanti che in molte altre piazze collocandosi a -12,6%.
Come si può capire da questi numeri il mercato giapponese presenta una caratteristica appetibile: è largamente la piazza tuttora meno dinamica, ma anche meno volatile dell'Asia del Nord: infatti lo Sharpe da marzo 2009 alla fine è risultato pari a 0,61, un valore nel periodo superiore allo 0,54 cinese e allo 0,55 coreano. La ragione alla base del fenomeno è tutto sommato abbastanza semplice: il Giappone non dipende da un piccolo numero di mega-cap del settore tecnologico. Infatti a fine marzo Toyota Motor Corp occupava la posizione di leadership in termini di capitalizzazione, superando però di poco il 4% del totale. Al secondo posto c'era Softbank con circa il 2,9%, l'unica altra azienda a superare la soglia del 2% del totale, nonché l'unico gruppo nella top 10 legato in maniera forte ai servizi tecnologici.
Come si può capire, le sorti del listino giapponese non sono legate a poche aziende di dimensioni gigantesche e dalle caratteristiche marcatamente growth. Il mix tra l'altro riflette un altro aspetto dell'economia locale: essa è sì ciclica e alquanto globalizzata, ma può contare, a differenza di quella coreana, di quella italiana e ormai anche di quella tedesca, tanto per citare altre potenze industriali, su un vasto mercato interno, per quanto in via di forte invecchiamento.
Di conseguenza il mix piuttosto equilibrato di colossi dei cosmetici, dell'entertainment, dell'auto, del farmaceutico, dei beni in conto capitale con in più una spruzzata di hardware hi tech, soprattutto a livello di small e mid cap, può rappresentare un buona alternativa di diversificazione.
Questo anche perché Tokyo rimane un mercato piuttosto economico, con un P/E forward intorno a 12 (un valore non molto diverso da quello trailing). Anche Corea e Cina non solo certo piazze costose: al livello attuale il P/E forward di Seul non arriva a 10. In generale, infatti, l'investimento azionario non entusiasma più di tanto gli investitori locali nel Nord Est dell'Asia, cosa che impedisce anche ai colossi tecnologici locali di raggiungere i multipli abituali in Usa. In un quadro come questo potere puntare anche su aziende con minori prospettive di crescita, ma un po' meno ondivaghe, non può fare che bene.