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Disoccupazione Usa, una spinta alle borse
Lunedì 11 luglio è successo qualcosa cui non eravamo più abituati e che solo qualche giorno prima sarebbe apparso altamente improbabile: l'S&P 500, di fatto un termometro dello stato di salute dei mercati finanziari del mondo, ha chiuso oltre 2.140, un nuovo massimo storico. Era da oltre un anno che ciò non succedeva. Il fenomeno ovviamente si è accompagnato a una serie di altri accadimenti che ormai costituiscono corollari fissi dei mercati in fase di risk-on: il Dax tornato intorno a 10.000, il dollaro in fase di calo, lo yen pure in declino, favorito dalla prospettive di nuove misure di stimolo dopo la vittoria elettorale di Abe, la ripresa dei corsi di Wti e Brent verso quota 50 dollari.
A spingere verso questo risultato sono arrivati diversi sviluppi positivi: la diminuzione della tensione nella vicenda Brexit, l'ascesa al ruolo di capo del governo da parte del nuovo leader conservatore Theresa May, la fiducia da parte degli investitori circa la possibilità di trovare una soluzione ragionevole e rapida per quanto riguarda la ricapitalizzazione delle banche italiane.
A dare però la scintilla al rally sono stati soprattutto i dati sulla disoccupazione americana: a giugno è stato creato un totale netto di 287 mila posti di lavoro. Questo dato ha fatto tirare un sospiro di sollievo a tutti dopo un risultato di maggio pessimo, peraltro rivisto ulteriormente al ribasso: una crescita di soli 11 mila posti contro i 38 mila stimati in prima lettura.
La realtà occupazionale Usa, però, è molto meno trionfale di quanto mostri il dato sulla creazione di nuovi posti di lavoro. Nonostante il risultato positivo di giugno, infatti, la disoccupazione è aumentata, passando dal 4,7% al 4,9%, grazie a un incremento di oltre 400 mila persone nel complesso della forza lavoro. Il cosiddetto participation rate (chi ha almeno 16 anni, non è né nell'esercito, né in carcere, né in istituzioni psichiatriche o in una casa di riposo), cioè il rapporto fra totale della forza lavoro e la cosiddetta popolazione non istituzionale civile, è rimasto fermo al 62,7%. Si tratta di un valore che non si muove, se non di pochissimi decimali, ormai da oltre un anno ed evidenzia una quota paragonabile a quella di inizio anni '80.
Anche la qualità dei posti di lavoro creati non è che appaia proprio clamorosa, con il maggiore contributo netto dato dal comparto del turismo e delle attività ricreative. Insomma nulla è cambiato, ma di questi tempi, come si suol dire con scarsa finezza, è tutto 'grasso che cola': al mondo ormai rimangono infatti due grandi driver di crescita, il consumo americano e quello cinese, con quest'ultimo rinforzato da un livello di investimenti ancora elevato.
Se avesse però cominciato a cedere il quadro occupazionale in Usa, con le tensioni di ogni tipo che oggi attanagliano il mondo, non sarebbe stato difficile immaginare l'avvio di una situazione da si salvi chi può. Anche il discreto andamento degli stipendi (+2,6%), per quanto mal distribuito fra settori e mansioni, permette quanto meno di scommettere sulla stabilità del possente consumo made in Usa.
Ciò, in un ambiente di tassi negativi e di continui nuovi round di quantitative easing, è probabilmente più che sufficiente a spingere al rialzo l'asset class più rischiosa, l'azionario, in particolare quello americano, per tutte le ragioni che abbiamo visto già in passato.