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Far East, una crescita che può continuare
Abbiamo visto che attualmente le divise di alcuni dei paesi più moderni dell'Asia, specificatamente Corea del sud, Singapore e Taiwan, si stanno finalmente rafforzando, in sincronia con una ripresa dei mercati equity locali. Il processo attuale, in un ambiente per queste nazioni di crescita economica mediocre e tassi di interesse storicamente bassi, anche se non paragonabili a quelli di altre parti del mondo industrializzato, è il risultato di un riaggiustamento di una politica strettamente mercantilistica perseguita per oltre un decennio, a partire dalla crisi del 1997.
A questo punto non si può fare a meno di porsi un quesito: come mai proprio adesso, con economie in rallentamento strutturale a causa di minori esportazioni e un parco consumatori domestico piuttosto indebitato e in via di invecchiamento, le autorità monetarie locali non stanno perseguendo politiche aggressivamente espansioniste per continuare a deprimere a livelli ridicoli le monete locali?
La risposta contempla ragioni sia contingenti, sia strutturali. Per quanto riguarda il primo ambito non si può non dimenticare i venti di protezionismo che spirano dall'America e non solo. Sbattere in faccia all'amministrazione Trump un Qe a scopo di ulteriore abbattimento dei corsi del dollaro taiwanese o del won coreano non appare un'idea dal grandioso timing nel momento in cui sei già sotto accusa di essere un manipolatore valutario. Significherebbe una pura e semplice dichiarazione di guerra valutaria.
A livello strutturale non si può non notare che la base economica di queste nazioni è cambiata: oggi dispongono di marchi apprezzati internazionalmente, di solidi mercati immobiliari invasi dal capitale cinese e di basi produttive sparse in tutto il mondo che aumentano il cosiddetto trading indiretto. In pratica il rapporto costi/benefici che si avrebbe, se venissero continuate le politiche di 15 anni fa, non sarebbe più conveniente.
Un secondo quesito che può sorgere a questo punto, però, riguarda l'andamento delle borse: se le tigri asiatiche sono oggi relativamente stagnanti e per di più gravate da una rivalutazione valutaria, perché i listini locali si stanno comportando bene, per di più dopo anni magri? In fondo non sarebbe sorprendente assistere a uno sviluppo storico simile a quello del Giappone, con la sua ostinata correlazione inversa fra Nikkei e yen.
Anche in questo caso ci sono ragioni sia di breve, sia di lungo periodo. Nell'immediato va detto che, dopo anni magri, questi mercati presentavano quotazioni decisamente a sconto: a fine 2016 il P/E forward del Kospi coreano a malapena superava 9. Vista anche la natura ciclica di questi mercati e il boom dell'It in corso, non sorprende che gli investitori domestici ed esteri abbiano finalmente visto in questa parte del mondo il profilo di growth at reasonable value che tanto desiderano.
È sostenibile però tale movimento nel lungo periodo? Se non cambiano in maniera drammatica le circostanze economiche, probabilmente sì. Intendiamoci: ci riferiamo comunque alla possibilità di sovra-performance in un ambiente fatto complessivamente di minori rendimenti degli asset finanziari a livello globale, con la possibilità anche di assistere a un modesto de-rating dell'azionario mondiale, considerati i multipli non proprio da occasionissima.
In quest'ambito il P/E forward della Corea è intorno a 10, Taiwan è un po’ più costosa (a fronte però di un maggiore dividend yield) posizionandosi sopra 13, così pure Singapore. Per tutti e tre questo indicatore è al di sotto della media storica, mentre sta crescendo la disciplina aziendale in termini di capex, dividendi pagati e semplificazione della struttura societaria di controllo.
In pratica, in una fascia di andamento economico intermedio, in cui non si vada incontro né a una recessione, che indurrebbe alla fuga gli investitori internazionali e farebbe tornare le pulsioni mercantiliste, né a un mega-boom indotto dagli Usa, con il suo corollario di afflusso di capitali, dollaro dilagante e Fed in versione falco, il riequilibrio in atto potrebbe continuare.
La maggiore minaccia sul lungo (ma neanche più di tanto) periodo, è che la Cina vada a devastare i comparti che oggi fanno la fortuna di queste nazioni, rendendosi autonoma in ogni interstizio tecnologico e finanziario: a quel punto il Far East dovrà per l'ennesima volta reinventarsi. Per il momento si può ancora cogliere i frutti di qualche anno di crescita.