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Pil pro capite, poca crescita in Usa
Avevamo visto che nei nove anni fra la fine del 2007 e quella del 2016 anche le migliori economie europee praticamente non hanno registrato alcun miglioramento a livello di Pil pro capite reale. A questo punto è interessante allargare l'analisi al di fuori dell'Europa. Partiamo dall'economia numero uno al mondo, gli Usa, dove basta una veloce lettura dei dati per riscontrare un risultato semplicemente disastroso: fra la mezzanotte di San Silvestro del 2007 e quella di quasi un decennio dopo, il Pil complessivo è cresciuto di un decoroso 12%, che però scende a un misero +4% a livello individuale. Infatti in quel periodo la popolazione statunitense ha continuato a salire, anche se a ritmi meno intensi rispetto al passato, passando da 301,2 milioni di abitanti a oltre 324.
La peggiore ripresa economica della storia del paese è stata però sufficiente a generare un boom di borsa clamoroso, il che può sembrare alquanto bizzarro se non consideriamo che nel decennio precedente le azioni Usa avevano sottoperformato quasi tutto il resto del mondo, che la Fed si è dimostrata fra le banche centrali più aggressive nella politica monetaria e che molte altre economie, avanzate ed emergenti, hanno comunque messo insieme risultati ancora più disastrosi rispetto all'America.
Detto ciò, vale la pena specificare qualche altro concetto: innanzitutto un Pil pro capite in modesta crescita si traduce con ogni probabilità in un peggioramento delle condizioni del cittadino mediano. Il fenomeno è particolarmente reale negli Stati Uniti, dove la forza e l'efficienza delle aziende locali ha portato negli ultimi decenni a un dominio della componente profitti nel calcolo dell'output economico di un paese. Quest'ultimo poi, qualsiasi sia la formula che viene utilizzata, oggettivamente ha visto negli ultimi anni una serie di revisioni tali da rendere il concetto di Pil molto indefinibile.
Ma vediamo qualche altra economia simile agli Usa, specificatamente il grande vicino del Nord, il Canada, che ha mostrato in nove anni un andamento mediocre, con un Pil pro capite venuto su del 2,5%. Molto meglio è andata l'Australia, ormai da un ventennio considerata una delle più brillanti economie avanzate, salita del 25,5% in totale, un valore che però a livello individuale cala di quasi due terzi, arrivando a +9,3%. In pratica anche in questo caso per la cosiddetta fascia inter-quartile (il 25% di popolazione sotto la mediana e il 25% di popolazione sopra la mediana, in pratica il 50% centrale) probabilmente c'è stato molto poco da banchettare negli ultimi anni.
Però in diversi casi (non solo negli Usa, ma anche nella relativamente brillante Germania e in diverse realtà asiatiche), gli asset rischiosi sono andati troppo avanti rispetto alla realtà delle singole persone. Questo fenomeno in parte è stato dovuto alla concentrazione degli investitori, in fuga dai disastri del Sud Europa e di certi emergenti verso pochi mercati con storie di crescita, in parte per la politica senza precedenti in termini di costo del denaro.
Il risultato è che la correlazione fra prezzi dell'obbligazionario e delle azioni, nonché dello sfogatoio globale della volatilità repressa, ovvero le valute, già storicamente piuttosto salda in territorio positivo, è andata ulteriormente ad aumentare. C’è da dubitare che questa correlazione si attenuerà in futuro, per cui alle banche centrali di tutto il mondo non resta che una scelta: o la normalizzazione monetaria o il bull market. Pensare di andare incontro a rendimenti crescenti dei bond, a maggiore inflazione e al contempo avere un proseguimento del rally azionario oggi è una pia illusione.