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PIL: 99 euro produzione pro-capite italiana, 12.mo posto nell’Ue
La mancanza di grandi imprese e multinazionali in Italia, sostituite da Pmi con bassa produttività e investimenti limitati in R&S, ha contribuito alla stagnazione economica e salariale negli ultimi 30 anni. Eventi come la caduta del muro di Berlino e Tangentopoli hanno aggravato la situazione.
L’economia italiana si può descrivere come le due facce di una moneta: la testa, che corre e poggia molto del suo potenziale nell’export, e la croce (il Sud), che denuncia problemi e ritardi. È la fotografia che emerge da un’analisi della CGIA di Mestre, la quale ha calcolato che ogni giorno il nostro Paese produce 5,8 miliardi di euro di Pil che, convenzionalmente, è misurato tramite la somma dei beni e dei servizi finali. Questa cifra corrisponde a 99 euro giornalieri per ogni cittadino, ultracentenari e neonati compresi. Le differenze regionali sono piuttosto evidenti. In Trentino-Alto Adige il Pil pro-capite giornaliero è di 146 euro, in Lombardia è di 131,80, in Valle d’Aosta è di 130,10, in Emila Romagna è di 118,9 e in Veneto è di 110,8. In fondo alla classifica troviamo invece la Campania con un Pil pro di 63,4 euro, la Sicilia con 60,1 e la Calabria, con 57,9 euro.
Spicca la ricchezza in Lussemburgo, Irlanda e Danimarca
Dal confronto con gli altri Paesi Ue, dicono gli esperti, paghiamo un gap importante, soprattutto nei confronti dei Paesi del Nord Europa, quelli che per convenzione sono ritenuti virtuosi nella gestione delle proprie risorse e dei conti pubblici. Se in Lussemburgo la ricchezza giornaliera per abitante è pari a 336 euro, in Irlanda si assesta a 266, in Danimarca a 179, nei Paesi Bassi a 164, in Austria a 149, in Svezia a 145 e in Belgio a 140. Per la precisione, tra i 27 partner Ue con 99 euro ci collochiamo distanti dal ‘podio’, al dodicesimo posto. Ma come spiegare questa posizione che, paradossalmente, non giustificherebbe il fatto che il nostro Paese è membro del G7? In primis, secondo l’analisi, va sottolineato che i Paesi con pochi abitanti, ma con una presenza importante di big company e di attività finanziarie, presentano tendenzialmente livelli di ricchezza molto superiori agli altri.
Non abbiamo più i big player
Poi va sottolineato che l’Italia è un Paese che non dispone più di grandissime imprese e di multinazionali, ma è caratterizzato da un sistema produttivo composto quasi esclusivamente da micro e piccole e medie imprese ad alta intensità di lavoro che, in media, accusa tassi di produttività non elevatissimi, eroga retribuzioni più basse delle aziende di dimensioni superiori - condizionando così l’entità dei consumi – e presenta livelli di investimenti in ricerca/sviluppo inferiori a quelli in capo alle grandi realtà produttive concorrenti. Al netto dell’inflazione, in questi ultimi 30 anni le retribuzioni medie degli italiani sono rimaste al palo, mentre in quasi tutta UE sono aumentate. Tra le cause del dato italiano sono da annoverare la crescita economica asfittica e un modesto livello di produttività del lavoro che dal 1990 ha interessato il nostro Paese, soprattutto nel settore dei servizi.
Bassa competitività
Una delle cause di questo risultato va ricercato anche nel fatto che, a differenza dei competitori europei, nell’ultimo trentennio la competitività ha risentito dell’assenza delle grandi imprese. Queste, infatti, sono pressoché scomparse, non certo per le troppe piccole realtà, ma per l’incapacità dei grandi player, spesso di natura pubblica, di reggere la sfida innescata dal cambiamento provocato dalla caduta del muro di Berlino e da Tangentopoli. Sin dai primi anni ’80 l’Italia era tra i leader europei (in molti casi anche mondiali) nella chimica, nella plastica, nella gomma, nella siderurgia, nell’alluminio, nell’informatica, nell’auto e nella farmaceutica. Grazie al ruolo e al peso di molti enti (Iri, Eni ed Efim) e di big, sia pubblici che privati (Pirelli, Fiat, Montecatini, Montedison, Enimont, Montefibre, Alfa Romeo, Pirelli, Italsider, Polymer, Sava/Alumix, Olivetti, Angelini), tali realtà garantivano occupazione, ricerca, sviluppo, innovazione e investimenti produttivi.
Abbiamo accusato la caduta del muro di Berlino e Tangentopoli
Oggi, dopo quasi 45 anni, abbiamo perso terreno e leadership in quasi tutti i settori in cui eccellevamo. E ciò – sottolineano dalla CGIA - è avvenuto a causa di alcuni avvenimenti che hanno cambiato il corso della storia: la caduta del muro di Berlino, ad esempio, ha riunificato l’Europa, ha riattivato i rapporti commerciali con i Paesi presenti oltre la ‘cortina di ferro’, spingendo fuori mercato molte delle nostre grandi aziende impiegate nei settori dove eravamo leader. Altrettanto dirompenti per l’Italia sono stati gli effetti provocati da Tangentopoli che hanno messo a nudo i limiti, in particolare, di molte imprese a partecipazione statale che fino allora erano rimaste attive grazie al mercato protetto in cui operavano e ai sostegni politici che avevano ricevuto dalla quasi totalità dei partiti presenti nella cosiddetta ‘prima Repubblica’. Nonostante ciò, in questi ultimi 30 anni l’Italia è rimasta tra i Paesi economicamente più avanzati del mondo e questo lo deve alle sue Pmi che, tra le altre cose, continuano a ‘dominare’ i mercati internazionali.