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La Carestia dei rendimenti obbligazionari
"L'indagine sul risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani 2017” presentata qualche giorno fa da Intesa Sanpaolo dal Centro Einaudi parla di “Carestia dei rendimenti obbligazionari” e di rendimento congelato del benchmark.
Secondo lo studio la «carestia dei rendimenti obbligazionari» unita alla normalizzazione dell'inflazione ha prodotto l'eutanasia o il congelamento progressivo dei rendimenti del portafoglio benchmark che il Centro Einaudi segue dal 2008. Negli ultimi tre anni il portafoglio benchmark di un investitore medio poco incline al rischio avrebbe visto ridursi i rendimenti totali lordi annuali dal 9 per cento (2014) al 3 per cento (2015) al 2 per cento (2016). Nei primi sei mesi del 2017 il contributo year-to-date al rendimento annuale del portafoglio benchmark è stato pressoché nullo.
L'analisi dei rendimenti delle singole componenti evidenzia come la carestia dei rendimenti obbligazionari abbia costituito il «cuore» dei problemi del portafoglio benchmark. L'aspettativa che la politica monetaria della Bce continuerà nella stessa direzione non consente ottimismo su una ripresa a breve termine del benchmark. Per svincolarsi dall'effetto della carestia dei rendimenti, il benchmark dovrebbe assumere più rischi nelle sue componenti più rischio-se e volatili, come le materie prime, l'oro e le azioni: si tratta però di asset class per investire nelle quali è indispensabile avere una approfondita conoscenza dei mercati, in termini sia di funzionamento che di analisi fattoriale dei driver dei prezzi degli investimenti. Nel 2016, per citarne una, l'oro si è apprezzato, ma nel 2017, per continuare, il petrolio si è invece deprezzato. Le azioni sono andate bene in alcuni paesi emergenti, ma non molto bene in Europa. Storicamente, per quanto per esempio si rileva dalle Indagini del Centro Einaudi degli anni precedenti, i risparmiatori italiani si sono dimostrati poco inclini ad assumere importanti rischi nelle asset class in questione.
L'inverno dei rendimenti del benchmark è in progressione da quasi due anni ed è assai ben visibile dall'appiattimento della crescita dell'indice del benchmark. È improbabile che i risparmiatori italiani decidano spontaneamente di uscire dal loro habitat non rischioso per affrontare gli investimenti nelle asset class rischiose. A meno che questo cambiamento non venga istituzionalmente incentivato. I nuovi Piani Individuali di Risparmio (Pir), nati a gennaio 2017, allineano i risparmiatori italiani a quelli di molti altri paesi, che ne dispongono da anni. Essi offrono molti vantaggi: mitigano i rischi attraverso la diversificazione temporale dell'accumulo dei risparmi; educano al risparmio progressivo; accolgono investimenti rischiosi ma diversificati; sono esenti da imposte sui rendimenti e sulle successioni.
In cambio, si deve mantenere l'investimento per almeno cinque anni, sottraendo il parterre telematico delle borse ai trader puri e cercando di far tornare a investire nelle aziende quello che fu il «Bot people», il quale, anche quando ha lasciato le obbligazioni di Stato, ha continuato a preferire il credito alle azioni. Siccome una borsa efficiente ha, nel lungo termine, un impatto positivo sulla crescita del Pil potenziale, i Pir e il ritorno guidato e razionale all'investimento azionario che essi offrono possono rappresentare una risposta sia al bisogno di rendimenti di lungo periodo appetibili per i risparmiatori, per sfuggire alla carestia dei rendimenti obbligazionari, sia al bisogno macroeconomico di capitali da investire nella crescita delle aziende italiane, incluse quelle piccole e medie, quotate o quotabili nel segmento AIM di Piazza Affari. I Pir e le ristrutturazioni delle abitazioni sono plausibilmente due mosse giuste per rimediare alla ripresa lenta degli investimenti interni e mettere fine alla fase della crescita slow, restituendo all'Italia tassi di crescita normali del suo Pil: quei tassi necessari perché si rimarginino le ultime cicatrici di una crisi troppo lunga, ossia la povertà e l'eccesso di debito pubblico.