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L'illusione di un boom che non c'è
Quanto è accaduto nelle ultime settimane è una perfetta testimonianza dell'irrazionalità dei mercati e degli investitori. Al di là del fatto che fra il 26 gennaio e l'8 febbraio abbiamo assistito alla correzione più rapida dell'S&P 500 da decenni a questa parte, dopo un periodo di volatilità ai minimi storici, è quanto meno curioso constatare che oggi lo spettro che si aggira per il mondo è l'inflazione.
Essenzialmente sembra evidente il fatto che l'economia globale non si può permettere un elevato livello di tassi di interesse, anche se resta da chiarire quale sia la soglia critica. Ciò che può lasciare stupiti è vedere questa isteria di fronte a un (modestissimo) rialzo dei prezzi, quando solo due anni fa tutti sembravano temere come la morte nera il caso opposto, ossia la deflazione. Se uno mettesse insieme un collage delle dichiarazioni di gestori e analisti nel 2016, oggi penserebbe o che sono passati in realtà almeno 10 anni fra i due accadimenti o che il mondo della finanza è stato colto da schizofrenia collettiva.
Ancora più sorprendente appare tutta questa paura se si considera la natura del rialzo inflativo: sembra dovuto finalmente a maggiori pressioni sui salari a loro volta derivanti dal fatto che diverse economie sono sostanzialmente in un quadro di piena occupazione. In poche settimane, però, siamo passati dal celebrare i numeri migliori da un decennio a questa parte a guardare con occhio preoccupato le quotazioni del Treasury decennale. In realtà la spiegazione è piuttosto semplice, ai limiti dl banale persino, e decisamente poco consolatoria: nonostante tutta la retorica sulla ripresa economica in corso, viviamo ancora in un mondo caratterizzato da un andamento del Pil estremamente deludente.
La crescita planetaria quest'anno dovrebbe salire del 3,9%: per quanto si tratti di una cifra relativamente elevata rispetto alla media storica, per uscire davvero dalla crisi sarebbe necessario uno scatto di reni ulteriore. Prendiamo ad esempio l'Eurozona e nello specifico l'Italia, che ha mostrato +1,4% nel 2017. Anche se si tratta del migliore dato da sette anni a questa parte, servirebbe ben altro per fare recuperare rapidamente al paese il terreno perso in molti settori in 10 anni, per non parlare della possibilità di colmare il gap, accumulato nell'ultima generazione di crescita miserrima, con il Nord Europa.
Anche il resto d'Europa non è che brilli particolarmente: il +1,8% complessivo della Francia, al netto dell'andamento demografico, è per la verità un numero peggiore di quello del Belpaese. Un discorso simile vale anche per il Regno Unito, anch'esso con un risultato di +1,8% per l'anno appena terminato. Fra le grosse economie europee solo la Spagna e la Germania sembrano espandersi ai ritmi giusti in relazione alle loro problematiche e al loro grado di sviluppo.
Un discorso simile vale per gli Usa, dove impazza la polemica politica fra destra e sinistra, ma dove si fa fatica a notare chissà quali rotture, sia positive, sia negative, fra i numeri generati nell'era Obama e in quella Trump.
Infine persino in Asia l'outlook è in verità piuttosto modesto: ormai quando il Giappone sale più dell'1%, Taiwan del 2% e la Corea del 3% si grida al boom. Se ci spostiamo nel Sud e nel Sud-est del continente, vediamo che le ruggenti economie di nazioni come Filippine, India e Vietnam fanno molta fatica a passare la soglia del +7% di aumento annuale del Pil. Il loro andamento risulta al rallentatore rispetto a quanto compiuto dalle originarie tigri asiatiche fra gli anni ‘70 e gli ‘80 e dalla Cina nei 2000. Quest'ultima peraltro è fra le poche nazioni che si muove al passo giusto per raggiungere gli scopi che si è data.
Morale della favola: attualmente stiamo vivendo una ripresa sicuramente positiva e importante rispetto al rischio recessione di un biennio fa, ma essa non è nulla di più che un rimbalzo all'interno di un macro-trend di progressivo declino strutturale della crescita globale. Per il momento illudersi che i fondamentali di questa realtà stiano migliorando sostanzialmente è una pia illusione, destinata a generare aspettative troppo elevate sui mercati e, come si è visto, conseguenti bruschi risvegli, quando ci si accorge che il sistema non è in grado di reggere neppure uno straccio di normalizzazione del costo del denaro.