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Azioni, sul lungo termine convengono
In alcuni recenti articoli abbiamo visto che creare un portafoglio da investire a lungo termine in modo da ottenere un reddito aggiuntivo alla pensione non è per nulla semplice e i risultati alla fine di 20-30 anni di versamenti costanti non sono per nulla eclatanti. L’unica possibilità che c’è di incrementare il rendimento è puntare sulle azioni che, nelle proiezioni dei piani di accumulo, prevedono un incremento medio annuo del 4% al netto di commissioni e tasse. Ovviamente si tratta di una previsione prudenziale, ma tutt’altro che garantita, visto che si tratta di capitale di rischio e che le differenze tra un mercato e l’altro possono essere rilevanti. Vediamo a questo punto se storicamente le maggiori borse mondiali hanno mantenuto le loro promesse.
Cominciamo con l’S&P500, il maggiore indice borsistico statunitense e del mondo: comprende le 500 società americane più importanti per capitalizzazione. Di fatto il suo andamento influenza i mercati di tutto il pianeta.
Il 1° aprile del 1988, esattamente 30 anni fa, questo benchmark quotava 261 punti, contro gli attuali 2.662, con un incremento nel periodo del 919%. In pratica chi 30 anni fa avesse messo 10.000 dollari oggi si troverebbe di solo valore azionario 119.000 dollari, senza contare i dividendi nel frattempo erogati. L’incremento medio annuo è stato del 30,66%, ben al di sopra di quel 4% che è stato ipotizzato.
È vero che nel frattempo c’è stata l’inflazione (in pratica però compensata spannometricamente dai dividendi) e che questa performance non comprende i costi di gestione e il prelievo fiscale, ma certamente chi ha investito nel maggiore indice americano si può ragionevolmente ritenere soddisfatto. Nel caso in cui invece per 30 anni fossero stati investiti 4.000 euro annui in maniera costante, i 120.000 dollari versati sarebbero oggi un capitale di 45,39 milioni di dollari. Ovviamente presupporre che nei prossimi 30 anni si possa ottenere un risultato di questo genere è del tutto fuorviante e certamente non scontato, ma sul piano statistico è certamente un numero interessante.
Vediamo invece quali sarebbero stati i risultati per un investitore che avesse puntato sul Dax, il listino certamente più rappresentativo dell’Eurozona ed espressione della più avanzata e solida industria del Vecchio continente. Al 1° aprile 1988 il becnhmark del mercato azionario di Francoforte era a quota 1.049, contro gli attuali 12.216 punti, con un incremento del 1.064% e una media annua di crescita di oltre il 35%. Inoltre per un risparmiatore italiano investire sul mercato tedesco fino all’avvento dell’euro sarebbe stato molto conveniente, visto che il marco, finché è stato in vita, si è rivalutato costantemente sulla lira. Con l’avvio della moneta unica, invece, è scomparso qualsiasi rischio di cambio.
E chi avesse puntato sulla borsa italiana? Purtroppo il Ftse Mib, il più importante indice di piazza Affari, non ha alle spalle una lunga storia: il primo dato disponibile è del 1° gennaio 2002, vale a dire più di 16 anni fa. In questo periodo chi avesse investito sulla borsa italiana avrebbe perso: il valore del benchmark italiano è passato da 25.919 punti agli attuali 22.899, con una perdita dell’11,65% complessivo. E gli altri indici nel frattempo come sono andati? Indubbiamente in maniera molto diversa rispetto alla borsa italiana: il Dax tedesco al 1° gennaio 2002 era 5.107 punti, contro gli attuali 12.216 (+139%), mentre l’S&P500 16 anni fa era a 1.133 contro gli odierni 2.662 (+134%). Ogni commento sull’opportunità di investire o meno a lungo termine sulla borsa italiana è superfluo.