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Le mutazioni dello shale oil
Gli Stati Uniti stanno producendo quantità enormi di petrolio. Secondo le stime pubblicate da Commerzbank, gli Usa produrranno circa 10,6 mln di barili giornalieri nel 2018 (l’incremento rispetto al 2017 si attesterà a 1,3 mln di barili giornalieri).
Il trend si deve al boom del petrolio da scisto, che sta determinando la nascita di enormi siti produttivi come quello di Cuenca Permica (tra il Texas e il New Mexico).
Lo scenario, unito alle sanzioni imposte al Qatar da parte della comunità araba, sta aprendo al petrolio Usa le porte del mercato medio-orientale. Quello che fino a poco fa sarebbe stato impossibile, sta prendendo una piega reale: il petrolio texano finisce nei serbatoi di paesi arabi. Questi ultimi non diventeranno mai un grande mercato per gli Usa, ma il dato rende l’idea dei cambiamenti in corso nel panorama internazionale.
La rivoluzione dello shale oil si può segmentare in tre fasi: la prima tra il 2011 e la metà del 2014, la seconda tra la metà del 2014 e l’ottobre del 2016 e la terza tra la metà del 2014 e la metà del 2017. Attualmente siamo immersi nella quarta fase, quella in cui gli Usa mostreranno al mondo intero di quanto può far lievitare la produzione con il prezzo del barile sopra i 65 usd. Gli Usa hanno la possibilità di dimostrare quanto realmente possano porre un tetto al prezzo del barile. Il cartello dell’Opec guarda con preoccupazione al fenomeno e alle ripercussioni sul mercato del petrolio.
Durante la prima fase –da gennaio 2011 a metà 2014- la produzione di petrolio negli Usa è passata da 5,4 mln di barili al giorno a 9,5 mln di barili. Questo incremento è imputabile principalmente all’aumento del numero di pozzi di shale oil. Nello stesso periodo l’estrazione di petrolio convenzionale è rimasta stabile.
Nella seconda fase –da metà del 2014 a ottobre 2016- abbiamo assistito a un cambio di strategia dell’Opec, passata da un eccesso all’altro: dall’inondazione dei mercati internazionali ai tagli alla produzione. Nel periodo di massima produzione di greggio da parte del cartello petrolifero, il prezzo del barile è sceso da quota 112 a 27 usd, per poi recuperare terreno nell’ultima parte della fase. Dopo lunghi mesi in cui le quotazioni non rendevano conveniente l’estrazione dello shale oil e danneggiavano le finanze dei principali paesi esportatori di greggio, il cartello ha trovato un accordo per tagliare la produzione adi1.8 mln di barili diari grazie alla collaborazione della Russia e di altri paesi non appartenenti al cartello.
Questa nuova strategia ha impiegato molti mesi a produrre risultati apprezzabili. Tuttavia, alla fine dei conti, gli inventari a livello planetario si sono ridotti e la quotazione del barile di Brent è risalita fino ai 70 usd. La quotazione trova un valido supporto anche nel continuo rafforzamento della domanda di oro nero, in scia al rinnovato vigore della crescita globale.
Attualmente è in corso la quarta fase della rivoluzione dello shale oil. Con costi di produzione molto più bassi rispetto al 2011 e un prezzo del barile prossimo ai 70 usd, l’industria Usa dello shale oil sta producendo 9,7 mln di barili giornalieri, quasi 1,5 mln in più rispetto a quelli registrati nel 2016. L’Opec sta analizzando la crescita della produzione Usa, che guadagna quote di mercato lentamente, e i suoi possibili effetti sui prezzi.
La grande preoccupazione sono i prezzi. Come reagirà la produzione Usa a quotazione meno stabili di quelle attuali? Se i prezzi si muoveranno rapidamente al rialzo e si allontaneranno da quota 70, la produzione Usa tenderà a sperimentare un’impennata. Questo è lo scenario più temuto dai membri dell’Opec.