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Guerra commerciale, sono gli Usa ad avere più da perdere
«Nella nostra cultura i pugni siamo abituati a restituirli». Così si è espresso qualche giorno fa il leader cinese Xi Jinping, l'uomo più potente della seconda (forse prima) economia del mondo. In generale negli ultimi anni il linguaggio usato da membri del governo e politici di Pechino in generale si è fatto decisamente, per così dire, più robusto, ma una simile escalation solo qualche settimana fa non sembrava all'orizzonte.
Dopo avere evidenziato gli effetti potenzialmente disastrosi di un coinvolgimento dei due maggiori comparti It del mondo in una guerra commerciale che sta cominciando a diventare una minaccia seria, questa volta vale la pena prendere il via dalle dichiarazioni di Xi per capire esattamente come potrebbero dispiegarsi e con quali conseguenze i pugni cinesi.
Innanzitutto partiamo dal commercio estero. In questo ambito c'è davvero poco da dire: a perdere di più sarebbe la Repubblica Popolare che ha importato nel 2017 dall'America beni e servizi per circa 130 miliardi di dollari e ha esportando a sua volta per circa 500. Il discorso però cambia se si va a guardare il cosiddetto trading indiretto. Con questo concetto intendiamo il fatturato generato da ciascuno dei due paesi nel mercato dell'altro attraverso controllate, joint venture e altre strutture. In questo caso, pur essendo la presenza cinese in Usa aumentata molto negli ultimi anni, il processo appare ancora piuttosto unidirezionale.
Infatti nel 2017 oltre 250 miliardi di dollari di fatturato generato da aziende di diritto cinese sul mercato domestico era riconducibile a una casa madre statunitense. In un'economia non esattamente priva di gestione dall'alto da parte delle autorità pubbliche non è incredibile pensare che la Cina interverrebbe con mano pesantissima per estromettere questi gruppi dal loro possente mercato domestico.
Va infatti ricordato che molto di questo fatturato è generato da colossi dei beni di consumo discrezionali che estraggono dal paese rendite da marchio. In questo ambito non è un mistero che vi siano concorrenti locali che in prospettiva il governo locale vorrebbe vedere dominare almeno il mercato interno. Le varie Starbucks, Apple, Nike rischierebbero di conseguenza, in un clima di guerra commerciale, di perdere rapidamente quote di mercato a favore dei concorrenti cinesi, favoriti sul piano istituzionale oltre che da una probabile ondata patriottica nel paese.
Questo processo di cambiamento si accorderebbe anche con una quasi certa politica di sostegno alla domanda interna, di cui si vedono peraltro già i prodromi: stando alle dichiarazioni di Yi Gang, governatore della Banca centrale, la Cina è in grado di reggere qualsiasi guerra commerciale anche grazie al fatto che l'istituzione da lui guidata è pronta a fornire qualsiasi strumento di sostegno monetario.
Il risultato più immediato è ovviamente che stiamo assistendo a un indebolimento dello yuan, fatto non gradito dalle parti di Pechino in un'ottica di decollo di una società dei consumi di massa. Gli Stati Uniti hanno però un punto nevralgico di debolezza non da poco: la diffusione dell'investimento azionario a ogni livello sia istituzionale, sia retail. È vero che finora l’S&P 500 è risultato ancora una volta il più solido dei benchmark borsistici, mentre sia Shenzhen, sia Shanghai sono in pieno bear market, ma è altrettanto fuori discussione che se i problemi attuali dovessero, insieme ad altri elementi, dare il là a un calo dell'equity statunitense (ad esempio) nell'ordine del 15% la botta sulle famiglie Usa sarebbe maggiore di quella generata da un dimezzamento delle azioni A su quelle del Dragone, che notoriamente detengono una porzione molto modesta della propria ricchezza in equity.
Occhio dunque alle interconnessioni finanziarie di un rischio politico finora troppo sottovalutato.