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Una Gran Bretagna sempre più europea
Torniamo a occuparci delle vicende del Regno Unito: in un precedente articolo era stato evidenziato che da circa un triennio l'economia locale performa peggio rispetto alla media del continente, specialmente se si considera il dato a livello pro capite. Ovviamente le incertezze legate alla Brexit si fanno sentire, vista anche la caduta degli investimenti nell'ultimo anno, al lavoro però in sottofondo potrebbero esserci anche trend di lungo periodo non da poco.
L'economia britannica ha avuto un’espansione spettacolare, per gli standard europei, a partire dalla seconda metà degli anni ‘80 fino alla crisi finanziaria del 2007-2008-2009, interrotta solo dalle temporanee recessioni che si sono manifestate. La Gran Bretagna è passata dall'umiliazione del famigerato sorpasso del 1987, in cui il Pil italiano superò per dimensioni complessive quello britannico, all'ambizione di superare la Germania come prima potenza europea, grazie al mix di vivace crescita demografica e di buon andamento dell’economia.
Se dobbiamo considerare quanto è successo nell'ultimo decennio, il quadro è diventato contraddittorio: la crisi finanziaria si è fatta sentire in maniera piuttosto pesante nel paese e nel 2008 il calo del Pil fu pari a -0,3% cui fece seguito -4,2% nel 2009 con i tre anni successivi di ripresa discreta, in cui la crescita fu pari rispettivamente a +1,7%, +1,6% e +1,4%.
Si tratta di numeri appena un filo migliori rispetto a quelli del Sud Europa, tanto che nel 2010 l'Economist fece una copertina semi-faceta su come la crisi finanziaria avesse ridisegnato la mappa dell'Europa, ponendo il Regno Unito molto più a sud della propria collocazione nel mondo reale, una sorta di Spagna del Nord. Come abbiamo visto, vi fu un biennio di ottima crescita per poi ripiombare nel relativo malessere attuale. Tutto ciò è stato accompagnato da una delle politiche monetarie più espansive dell'intero pianeta, Giappone a parte.
Tutti questi cambiamenti si sono fatti sentire in maniera non indifferente sull'andamento degli asset britannici, a partire dalla sterlina. Quest'ultima è stata una delle divise più forti nel decennio fra i tardi anni ‘ 90 e i primi anni 2000, grazie al fatto che questa divisa era la meta di investimento di enormi masse di carry trade, fenomeno a sua volta dovuto al fatto che la brillantezza dell'economia locale permetteva tassi di interesse un po' più elevati della media Ocse. Come abbiamo visto, le premesse si sono ribaltate: nel 2007 fu raggiunto il massimo contro dollaro dell'intero periodo, sopra 2,09. Nel caos post-Brexit si è scesi brevemente sotto quota 1,2 e attualmente siamo intorno a 1,29.
Non ci vuole un premio Nobel per capire che la valuta del Regno Unito è in un bear market di lungo periodo nei confronti di quasi tutte le major, yen ed euro inclusi: l'ultima fase di forza si è registrata ai tempi belli del 2014-2015. Insieme ai tassi bassi, questa volatilità valutaria rende costoso investire con strategie di hedging sugli asset britannici. In pratica il paese per certi versi si trova ormai degradato in una fascia di prospettive di rischio rendimento molto più simili a quelle dell'Europa continentale rispetto a quello che era il ruggente gruppo delle economie anglosassoni di qualche anno fa.
Investire in Uk oggi sicuramente si può, però bisogna tenere conto di una valuta tendenzialmente debole, di cicli economici comunque deludenti, di rendimenti obbligazionari poco interessanti e di un mercato azionario composto sì da grandi gruppi, ma comunque poco rappresentato nei segmenti a maggiore crescita planetaria.
Se era probabilmente un'esagerazione un decennio fa prevedere per il paese problemi di tipo sud-europeo, una veloce scorsa ai numeri macro e alle caratteristiche finanziarie locali ironicamente fa emergere il quadro di un Regno Unito sempre più simile a quell'Europa continentale da cui ha voluto allontanarsi.
In un prossimo articolo daremo un'occhiata più in dettaglio a quanto offerto dal mercato azionario locale.