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Cina: un renmimbi debole può davvero contrastare l’inflazione?
Il renmimbi potrebbe dare un contributo nel fiaccare le tensioni inflative a livello mondiale, tenuto conto che la Cina è un grande Paese esportatore. Tuttavia, la debolezza della moneta cinese non può incidere sulle componenti interne dei Paesi, come gli affitti, i salari, le materie prime.
La moneta cinese, il renmimbi (RMB), potrebbe essere in grado di spegnere la fiammata accusata dall’inflazione a livello mondiale. Da gennaio, la divisa si è deprezzata di quasi l'8% sul dollaro, avvicinando così il target di 7 per dollaro che gli analisti stimano per fine anno. Il suo percorso sembra tracciato. La Banca Centrale cinese (PBoC) ha già iniziato a contrastare un'ulteriore svalutazione, tagliando di 2 punti la riserva obbligatoria, al 6%, e fissando negli ultimi giorni il tasso di cambio ufficiale a tassi più elevati del previsto. Queste misure potrebbero però non essere sufficienti, visto che il dollaro continua ad apprezzarsi e, con il probabile arrivo di recessioni (destinate a pesare sulla domanda esterna nella maggior parte dei Paesi sviluppati), c'è il rischio che il cambio superi la soglia 7,10-7,20 RMB per dollaro.
Favorisce il contenimento dell’inflazione importata
Ma come può incidere la dinamica del renmimbi negli altri Paesi? Un renminbi più debole, spiega David Rees, senior emerging markets economist di Schroders, è spesso associato a un impulso deflazionistico nel resto del mondo. Il suo deprezzamento, in sostanza, rende molto economico l’import di beni cinesi da parte degli altri Paesi. Infatti, sembra esistere un legame tra le oscillazioni del renminbi e i tassi di inflazione dei partner commerciali. Ad esempio, i prezzi dell’import Usa proveniente dalla Cina fluttuano col tasso di cambio e questi sono molto correlati all'inflazione dei beni essenziali d’Oltreoceano. Relazioni simili sono osservate anche in Europa. L’economista, tuttavia, ammette di avere un paio di dubbi che il deprezzamento del renminbi abbia risolto la crisi dell'inflazione globale.
Ma l’RMB non incide su molte componenti interne
Innanzitutto, spiega, in altri Paesi la correlazione tra i movimenti della valuta e i prezzi si applica solo alla parte dell'inflazione relativa ai beni essenziali. Il renminbi, per esempio, non ha un impatto significativo su altri fattori chiave come il mercato degli affitti, i servizi locali o i prezzi internazionali delle materie prime: tutti fattori che spiegano la maggior parte dell'inflazione in mercati come, appunto, gli Stati Uniti. Di riflesso, la relazione tra il renminbi e l'inflazione complessiva è piuttosto debole. Il secondo dubbio di Rees riguarda le oscillazioni del renmimbi: tende ad indebolirsi quando l’export è in calo e ad apprezzarsi quando cresce. In questo ultimo caso, le imprese trasferiscono con maggiore facilità i costi più elevati sui consumatori, alimentando così l'inflazione interna.
Il renmimbi non basta per frenare l’aumento dei tassi
In conclusione, secondo l’analisi, le dinamiche registrate dall'inflazione globale sono ancora in realtà una funzione della forza della domanda rispetto all’offerta e, di conseguenza, i movimenti del renminbi sono in gran parte da considerare un sottoprodotto del suo impatto sul commercio. Infatti, sottolinea ancora l’economista di Schroders, il previsto rallentamento delle esportazioni, dovuto al calo della domanda di manufatti, è stato uno dei motivi principali della visione ribassista sul renminbi dall'inizio dell'anno. Il risultato è che, a meno di un improbabile grande deprezzamento una tantum, l'indebolimento del renminbi non modifica in modo significativo le dinamiche dell'inflazione globale, né la necessità per le Banche centrali dei Paesi sviluppati di continuare ad aumentare i tassi.