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L'era della Grande moderazione
La settimana appena passata ovviamente è stata dominata dal riesplodere della nuova guerra fredda fra Cina e Usa, con entrambe le super-potenze impelagate in un clima di diffidenza reciproca, se non di aperta ostilità. L'S&P 500 ha messo a segno quattro sessioni negative di fila, una cosa che non succedeva dal quarto trimestre da tregenda dell'anno passato.
Se però cerchiamo di distaccarci un attimo dall'attualità e cerchiamo di allargare l'orizzonte temporale all'ultimo quinquennio, si nota che c’è stato un rallentamento generale delle economie più globalizzate e non sorprendentemente altrettanto si è visto sui mercati.
Spesso infatti viene sottolineato che le performance dell'equity statunitense sono insostenibili rispetto ai propri concorrenti, rispetto alla propria media e alla situazione dell'economia reale. In realtà, però, se andiamo a osservare il quinquennio che va dalla fine del 2013 a quella del 2018, lo stesso segmento temporale durante il quale abbiamo osservato l'evolversi di diversi Pil a parità di potere d'acquisto, si scopre che l'S&P 500 non poi fatto chissà che.
Esso si trovava infatti all'inizio di tale lustro a 1.848 circa per arrivare al termine dell'anno scorso a 2.506, il Cagr in tale fase è stato +6,28%. Se aggiungiamo sulla base total return annuale grosso modo un paio di punti percentuali si arriva nell'area +8-8,5%. Curiosamente questa percentuale rappresenta anche quella che è stata la media storica di lungo periodo (dal dopoguerra a oggi) dei rendimenti dell’S&P 500.
Essenzialmente l'azionario statunitense ha vissuto un primo decennio del secolo complessivamente spaventoso, cui ha fatto seguito una rapidissima ripresa indotta dal quantitative easing, che probabilmente era andata troppo avanti rispetto ai fondamentali dell'epoca. Negli ultimi anni è successo poi un po' di tutto, con fasi euforiche, brevi momenti di panico, recessioni dei profitti, esplosioni al rialzo di questi ultimi e altro. Pur essendo mancati eventi estremi, sta perdurando a lungo quella che potremmo chiamare “volatilità della volatilità”, uno sviluppo testimoniato anche dalle rapide e improvvise oscillazioni del Vix.
A osservare quanto sta accadendo sembra che gli investitori passino da un estremo all'altro ignorando quello che però rischia di essere lo scenario più probabile e forse anche il peggiore ossia che, né per un nuovo boom, né per una nuova crisi finanziaria, sembrano esserci più di tante possibilità: lo scenario centrale vede un'economia mondiale, inclusa quella statunitense, progressivamente sempre più stagnante. Questa nuova realtà sta creando un paradigma in cui sostanzialmente la strategia migliore sembra essere quella incentrata sul comprare nei momenti di crisi e lasciare il mercato quando l’euforia cresce troppo.
In fondo quanto stiamo vedendo in questi giorni potrebbe essere letto come una mean reversion dopo quattro mesi di eccesso di entusiasmo, i quali a loro volta possono essere interpretati allo stesso modo dopo tre mesi di terrore. Se un simile paradigma si consolidasse, le azioni alla lunga diventerebbero ciò che una volta erano le obbligazioni: fornitori di flussi di cassa relativamente stabili e consistenti con qualche guadagno in conto capitale che, al netto di qualche periodo di turbolenza, se ben gestiti possono rappresentare occasioni di ulteriore guadagno.
In fondo non si tratterebbe neppure di chissà quale incredibile sviluppo, visto che ormai da tempo le obbligazioni governative e anche non pochi nomi corporate hanno assunto il ruolo che un tempo era riservato alla liquidità.