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Petrolio, in pieno bull market
In un’atmosfera di incertezza globale, il petrolio sta continuando la sua ascesa costante: il Wti, che è il benchmark americano, attualmente è a circa 71,50 dollari al barile, intorno ai massimi da tre anni e mezzo a questa parte, mentre il Brent, che rappresenta la qualità di riferimento per l’Europa, ha superato quota 77, per poi leggermente ritracciare. In questo quadro ciò che lascia stupiti è la costanza della crescita nel corso dell’ultimo anno, che si è verificata di fatto con una scarsissima volatilità. Un andamento simile al mercato azionario americano fino al febbraio corso.
Ma questo indubbio bull market, che per il momento ha superato le previsioni degli analisti, è destinato a durare? Si tratta di una crescita legata a fattori contingenti oppure ha basi strutturali forti? Attualmente alcuni operatori si stanno spingendo ad affermare che la quotazione di 100 dollari per il Brent potrebbe essere raggiunta entro la fine del 2018. Premesso che fare previsioni sull’andamento dei corsi dell’oro nero è sempre molto difficile, qualche considerazione certamente la si può fare.
Tensioni in Medio oriente. La situazione molto difficile in Medio Oriente, con gli Stati Uniti che stanno facendo saltare l’accordo con l’Iran, può influenzare in misura notevole l’andamento dei corsi petroliferi. Se il regime degli ayatollah si trovasse di nuovo escluso dai mercati internazionali del greggio, sul mercato verrebbe a mancare circa un milione di barili al giorno, con le ovvie conseguenze sui prezzi.
Venezuela in crisi. Il paese sudamericano, uno dei maggiori produttori mondiali, ha sempre più difficoltà a mantenere i suoi livelli produttivi e l’azienda di stato ha ormai debiti non onorati con il mondo intero. Diversi grandi gruppi che hanno subito le insolvenze di Caracas hanno ottenuto il pignoramento di alcuni importanti impianti di stoccaggio e hanno bloccato una notevole parte della produzione. Inoltre la Cina da tempo, a parziale pagamento di vecchi crediti, sta ottenendo a titolo gratuito oltre 300 mila barili al giorno di oil. In queste condizioni il tracollo dell’intero sistema economico venezuelano è tutt’altro che un’ipotesi remota e significherebbe la scomparsa dal mercato di un ulteriore milione di barili al giorno. E anche in questo caso i mercati scontano in anticipo questa eventualità.
Opec. L’Organizzazione che raccoglie i paesi esportatori di petrolio e che è guidata dall’Arabia Saudita è impegnata ormai da un paio di anni a tagliare la produzione. Non solamente: è arrivata a un accordo con uno dei suoi più importanti nemici storici, la Russia. Ambedue i produttori hanno interesse a mantenere i prezzi alti: Mosca sta affrontando problemi economici non da poco ed è ancora molto dipendente dalle quotazioni dell’oro nero, mentre Ryad sta portando avanti un programma di armamento e di leadership dell’intero mondo islamico che richiede l’investimento di grandi capitali. Difficilmente queste due entità faranno qualcosa per fare scendere i corsi.
Shale americano. In questo contesto un ruolo lo gioca lo shale oil americano, vale a dire il prodotto estratto dallo scisto. Si tratta di una materia prima cara da produrre e che con i prezzi attuali è tornata ampiamente competitiva. Di conseguenza le imprese Usa hanno ripreso a pompare a tutta forza. Ma se da una parte questa tendenza tende a calmierare i prezzi, dall’altra parte la mancanza di infrastrutture di stoccaggio e di oleodotti fa sì che sui mercati internazionali lo shale oil non incida pesantemente.
Ciclo globale. Sia pure con un certo rallentamento rispetto alle previsioni di inizio anno, il ciclo economico globale fornisce una spinta positiva. Le industrie in tutte il mondo stanno incrementando i loro affari e la produzione: è un quadro quasi perfetto per tutti i produttori di energia.
Ok, il prezzo è giusto. Su questa base si può quindi pensare che ci saranno ulteriori rialzi? È una risposta difficilissima da dare, ma una considerazione è fondamentale: una quotazione tra 70 e 80 dollari al barile è praticamente perfetta per tutti. Ai produttori garantisce un livello di profitti già molto buono e permette anche alle società che hanno costi di estrazione alti (quelle off shore, per esempio) di sopravvivere bene. Ugualmente si tratta di un costo sostenibile per le industrie di tutto il mondo, che non rischia di provocare un rialzo pesante dei prezzi dei beni di consumo. In pratica un equilibrio quasi perfetto. Uno schizzo verso 100 dollari darebbe non pochi problemi a tanti utilizzatori, Europa in primis, mentre un ritorno verso 50 dollari rimanderebbe in crisi molte società petrolifere. Su questa base, anche se i prezzi del petrolio sono spesso, o forse quasi sempre, condizionati da elementi totalmente irrazionali, si può pensare che qualche sbalzo di 10 dollari al barile in più o in meno sia possibile, ma non oltre. Pronti ovviamente a essere smentiti dai fatti.