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Un settore sull'ottovolante
Prima c’è stata l’esplosione. Poi il crollo e il consolidamento seppur tra alti e bassi. Stiamo parlando del settore delle biotecnologie che negli ultimi anni ha assistito prima a una corsa agli investimenti per le gigantesche opportunità di sviluppo che si ritenevano potessero trovarsi al suo interno e in seguito è stato penalizzato dal boom dei generici e più in generale dalle caratteristiche proprie di un settore che tradizionalmente ha il suo tallone d’Achille nell’altissima volatilità e nella fragilità dell’esposizione alle fasi di risk off.
Se diamo una rapida occhiata al benchmark di settore, il Nasdaq Biotech, vediamo che dai minimi della crisi finanziaria di inizio 2009 ai massimi storici del luglio 2005 questo indicatore era cresciuto di circa il 480% a 4.160 punti, per poi tornare ai 3.000 punti attuali. Si tratta di cifre che appaiono enormi anche all’interno di un paradigma, allo stesso tempo, di alta crescita e di scarso sviluppo.
A spingere questo comparto erano state perlopiù ragioni che parevano secolari, legate in particolar modo all’evoluzione tecnologica, ai guadagni di produttività che la progressiva informatizzazione aveva portato nella ricerca di nuovi farmaci e agli elevati margini di profitto che tutto sommato i vari sistemi sanitari dei principali paesi garantiscono. Poi, non troppo a sorpresa, sono arrivati i primi nodi al pettine: già all’epoca del boom, nella lista dei problemi che avrebbero potuto affliggere l’industria delle biotecnologie c’era la possibile ascesa dei biosimilari, spesso erroneamente assimilati agli equivalenti. Purtroppo quello che era considerata solo una possibilità si è rivelata una sorta di sentenza. La loro significativa espansione ha infatti fatto venire meno un altro dei pilastri dell’industria biotech, cioè che a fronte di un processo di ricerca decisamente rischioso scaturiscono farmaci dai margini altissimi e praticamente inattaccabili dalla concorrenza.
Ora è vero che nelle varie giurisdizioni i tempi di esclusività concessi ai brevetti erano e sono decisamente generosi (10 anni in Usa), ma è allo stesso modo interessante capire che cosa succede quando la protezione viene meno. Specie negli ultimi anni, soprattutto in un'Europa meno ricca di tecnologie proprietarie, si è sviluppata l’industria dei cosiddetti biosimilari, grosso modo l’equivalente in questo ambito dei generici. In pratica, le aziende che operano nel settore tentano di replicare le molecole organiche di determinati farmaci, offrendole ovviamente a un prezzo inferiore.
De facto questo segmento di mercato è partito in Europa nel 2011, mentre negli Usa il primo biosimilare è stato approvato solo nel 2015. In pratica si è assistito a un fenomeno simile al patent cliff subìto dall’industria farmaceutica qualche anno fa benché, almeno teoricamente, la produzione dei farmaci biotech è molto diversa da quella dei medicinali tradizionali. Se per copiare un principio attivo tradizionale è sufficiente replicarne la struttura chimica, questo metodo non è applicabile per i biosimilari a causa dell’elevata complessità strutturale dei farmaci biotech, del loro processo produttivo e dei relativi macchinari necessari per ottenerli.
Una teoria valida a prima vista che tuttavia non teneva conto di un particolare importante: il progresso tecnologico. Alcuni elementi che costituivano una forte barriera all’ingresso sono in pratica stati divelti alla velocità della luce dalle nuove tecnologie. Con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: il Nasdaq Biotech vivacchia da un anno, tra pesanti saliscendi, attorno quota 3.000 punti. Questo per dire che non esistono investimenti sicuri e che le variabili da considerare prima di puntare su un comparto sono moltissime e non sempre conosciute.