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Oro: rifugio alternativo agli asset denominati in dollari
L’oro è salito di oltre 3.150 dollari ad aprile, trainato dalla domanda di Banche centrali e investitori, mentre l’offerta è stagnante sui livelli del 2018. Il prezzo potrebbe raggiungere i 5mila dollari entro fine decennio, grazie al suo ruolo monetario e ai forti margini della produzione mineraria.

Gli investitori sono sempre affascinati dall’oro, che continua ad aggiornare record sulla spinta di molti fattori. Le dinamiche geopolitiche e fiscali globali (il passaggio dalla globalizzazione alla multipolarità, l’aumento dei debiti sovrani e dei deficit) creano un contesto per un forte mercato rialzista. Inoltre, la politica protezionistica di Trump, ritenuta stagflazionistica e anche destabilizzante per l’ordine monetario mondiale basato sul dollaro, accelerano questa tendenza. L’oro, in un mondo in cerca di rifugi sicuri, emerge così come il principale beneficiario.
Gli investitori tendono ad evitare le incertezze
Questo quadro è stato descritto da James Luke, gestore dei fondi dedicati ai metalli presso Schroders, il quale ritiene che le evoluzioni di lungo periodo in ambito geopolitico e fiscale rappresentino un potente motore per un forte trend rialzista. In particolare, nella geopolitica, il mondo sta progressivamente abbandonando il modello della globalizzazione per entrare in una fase di crescente multipolarità e confronto tra potenze. Sul piano fiscale, livelli eccezionalmente elevati di debito pubblico e deficit strutturalmente insostenibili (negli Usa, in diversi Paesi e in Cina) costituiscono un mix pericoloso, che storicamente tende a sfociare in Pressione fiscale, inflazione e svalutazione monetaria. Sono fattori, secondo Luke, già in grado di generare un contesto in cui diversi flussi di capitale a livello globale si orientino sull’oro, visto sempre più come bene rifugio monetario.
Il rischio della politica protezionistica Usa
Il mercato dell’oro è abbastanza ampio, come ribadisce l’esperto, per accogliere una domanda simultanea di vasta portata, senza un deciso incremento dei prezzi. E le politiche Usa contribuiscono ad accelerarne il trend. L’approccio protezionistico è, nella sua essenza, destinato, infatti, a generare un contesto di stagflazione. Secondo Schroders, i dazi potrebbero aumentare l’inflazione Usa di circa il 2%, riducendo al contempo la crescita economica di quasi l’1% – e questo senza nemmeno considerare eventuali misure di ritorsione da parte di altri Paesi. Il contesto generale potrebbe però rivelarsi ancora più dirompente. Con l’introduzione di dazi aggressivi basati sull’ampiezza dei deficit commerciali – piuttosto che su vere e proprie barriere protezionistiche – Trump sta inviando un messaggio chiaro: gli Stati Uniti non mirano più al libero scambio, ma a un commercio ‘‘equo’’ e bilanciato.
Questa presa di posizione, aggiunge Luke, rappresenta non solo un rifiuto della globalizzazione, ma anche una possibile messa in discussione del sistema monetario internazionale imperniato sul dollaro, che regge dalla fine del regime di Bretton Woods (1971). Da allora, il biglietto verde ha assunto il ruolo di principale valuta di riserva a livello mondiale, con un’influenza superiore al peso economico Usa in termini di PIL globale. Ha rappresentato il perno di un sistema commerciale internazionale aperto, regolamentato e rafforzato da solide alleanze geopolitiche. Una delle conseguenze di questo predominio del dollaro è stato il continuo reinvestimento dei proventi in valuta Usa in attività denominate in dollari, in particolare nei titoli di Stato Usa (Treasury), finora considerati beni rifugio e fondamenta del sistema finanziario globale. A ciò si aggiungono le ingenti esposizioni estere in azioni e crediti privati statunitensi.
Il boom degli acquisti dietro la corsa dei prezzi
Il risultato di questi afflussi è una posizione patrimoniale netta negativa per gli Usa, pari a 26mila miliardi di dollari. L’attacco al sistema attraverso l’uso dei dazi, secondo l’esperto, potrebbe innescare massicci rimpatri di capitali, proprio mentre crescono dubbi sulla solidità degli asset in dollari e sulle prospettive economiche Usa. In assenza di valide alternative, Luke prevede che l’oro possa trarre grande vantaggio da questa nuova dinamica. Dall’inizio del 2024, l’oro è rincarato di oltre mille dollari, toccando i 3.150 lo scorso aprile. Questo rialzo è sostenuto dalla crescente domanda delle Banche centrali e anche dall’impennata degli acquisti da parte degli investitori globali. Di riflesso, i prezzi potrebbero salire ancora sensibilmente, poiché l’offerta di oro – in particolare quella proveniente dalle miniere, ferma ai livelli del 2018 – non è in grado di crescere nel breve termine.
La prospettiva prudente dell’oro a 5mila dollari
Vedere l’oro a 5.000 dollari entro fine decennio, ipotesi un tempo ambiziosa, appare quindi sempre più realistica, se non addirittura prudente. L’attuale livello, conclude Luke, dovrebbe tradursi in una crescita significativa degli utili e dei flussi di cassa per le società minerarie aurifere. Tuttavia, nonostante questo, gli investitori hanno ridotto drasticamente la loro esposizione ai fondi passivi legati all’oro, con deflussi record di 2,4 miliardi di dollari solo nel primo trimestre 2025. Paradossalmente, questo segnale negativo dal punto di vista del sentiment potrebbe rivelarsi un’indicazione positiva per il potenziale di rimbalzo. A differenza di altre materie prime, l’oro sta salendo non per dinamiche industriali, ma per la sua funzione di bene rifugio. Questo si traduce per i produttori in margini operativi eccezionali, anche grazie alla stabilizzazione dei costi.
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